Anche in questo atipico anno scolastico la scuola sta riaprendo i battenti tra mille timori, incertezze e ipotesi di retromarcia. Alle consuete polemiche sui ritardi delle coperture degli organici si aggiungono, sulle prime pagine dei giornali e sui social, quelle riguardanti le consegne dei banchi, delle mascherine, dei gel, l’incertezza dei protocolli e degli orari. Si tratta di preoccupazioni e questioni di indubbia rilevanza che, tuttavia, se assolutizzate rischiano di alimentare una visione di cortissimo raggio delle sfide che il sistema di istruzione deve affrontare e, soprattutto, di enfatizzare ancora una volta un’idea della scuola come problema e non come risorsa fondamentale.
La scuola che riapre in questi giorni è la leva principale per la formazione e lo sviluppo di oltre 8.300.000 ragazzi e ragazze (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado). Insieme agli oltre 1.800.000 studenti frequentanti l’università e i corsi di alta formazione artistica e musicale stiamo parlando di un investimento strategico sul capitale umano che riguarda il 17% dell’intera popolazione italiana. Com’è noto, rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale, il nostro sistema di istruzione presenta accanto a punte di eccellenza ancora diverse criticità tra le quali, solo per citarne le principali, ricordiamo: performance mediamente più basse nelle prestazioni di lettura, matematica e scienze; un livello più alto di giovani che terminano gli studi prima di conseguire una qualifica o un diploma di secondaria superiore (in Italia sono il 13% dei 18-24enni), un numero significativamente più basso di laureati (sono poco più di un terzo dei 25-29enni) oltre a forti disuguaglianze a livello territoriale.
All’interno di questo quadro le indagini dell’'Osservatorio Giovani' dell’Istituto Toniolo – l’ente fondatore dell’Università Cattolica, di cui il 20 settembre si tiene la 96ª Giornata, tema: «Alleati per il futuro» – hanno monitorato l’esperienza che i diretti beneficiari, i giovani, hanno avuto del sistema di istruzione, la loro idea di scuola e le loro aspettative di cambiamento. Ne emerge una visione disincantata e al tempo stesso sfidante di una scuola come esperienza formativa fondamentale da rivedere, valorizzare e rilanciare a vari livelli. I n un’indagine dell’Osservatorio Giovani effettuata prima dell’emergenza Covid-19 è stato chiesto a un campione di giovani tra i 18 e i 34 anni a cosa serve secondo loro la scuola. Per almeno sette su dieci serve ad aumentare le conoscenze e le abilità personali (77,7%) a imparare a ragionare (75,1%) e a stare con gli altri (73,4%). Sei su dieci pensano che serve a capire le proprie attitudini e (63,5%) e formare dei cittadini consapevoli (60,4%). Poco più della metà pensa che la scuola serve ad affrontare la vita (52,2%) o a trovare un lavoro migliore (53,4%). Il 44,5% pensa che possa servire a trovare più facilmente lavoro (44,5%) e per meno di un terzo è utile a capire come funziona il mondo del lavoro. Questa graduatoria pone in evidenza i pregi sotto il profilo della crescita personale, culturale e sociale, ma anche le criticità che i giovani rilevano soprattutto nella mancanza di raccordi istituzionali tra il sistema di istruzione e il percorso di orientamento e inserimento nel mercato del lavoro.
In merito agli insegnanti, la spina dorsale del sistema, i giovani riconoscono loro maggiori competenze nella preparazione sui contenuti della disciplina, nello spiegare e valutare e nella gestione delle relazioni, mentre ritengono meno diffuse le capacità di adattamento e risoluzione di problemi inediti, di supporto individuale e di capacità di motivare allo studio. Rispetto alle ipotesi su cosa andrebbe implementato i giovani individuano una molteplicità di fronti. Limitandoci a quelli più consistenti, segnaliamo che oltre sei giovani su dieci propongono l’aumento dei giorni complessivi di scuola, l’aumento delle possibilità di scelta delle discipline, dell’uso delle nuove tecnologie, delle attività laboratoriali e, poco al di sotto del- la soglia del 60%, l’aumento degli scambi culturali con scuole straniere, l’implementazione delle lingue straniere e degli stage e tirocini lavorativi. A emergere è una richiesta complessiva e pressante di maggiore investimento in una scuola più dinamica e aperta alle innovazioni, all’internazionalizzazione, al dialogo con il mondo del lavoro e alle istanze e attitudini proprie dei singoli studenti.
In questa prospettiva, l’evento della Pandemia ha rappresentato un’opportunità positiva che non va sprecata, quantomeno sul piano della riduzione del divario digitale tra insegnanti e studenti e della digitalizzazione delle scuole. Va da sé che la didattica a distanza, per quanto possa rappresentare un valido supporto per il processo di apprendimento, può solo in parte favorire lo sviluppo di tutte quelle competenze e attitudini che gli studenti acquisiscono nella relazione in presenza e nei contesti di apprendimento con i pari e con gli insegnanti e non può rappresentare l’unica leva di innovazione del sistema. Il divario tra l’esperienza effettivamente vissuta e ciò che l’istruzione come ascensore sociale e leva di apprendimento dovrebbe o potrebbe essere, si riflette anche nel grado di fiducia che le nuove generazioni dichiarano di riporre nella scuola e nell’università. Fiducia che supera la sufficienza per poco più della metà del campione passando dal 56,8% del 2013 al 53,5% della rilevazione del 2017.
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Diego Mesa
Docente di Sociologia della famiglia e dell’infanzia all’Università Cattolica, membro dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo
Avvenire, 16 settembre 2020